Coronavirus e psicologia: gli effetti a breve e lungo termine sulla mente - maggio 2021
Le Organizzazioni governative e della Salute, ormai da mesi,
ci informano costantemente sulle misure preventive da attuare contro
l’avanzamento del COVID-19. Anche adesso che fortunatamente i contagi si
mantengono in calo e la nostra vita pare essere ritornata a una pseudo
normalità.
In diverse parti del mondo, in parallelo con la ricerca sanitaria ed
epidemiologica sulla natura del virus, la prevalenza e l’influsso della
malattia, le terapie più efficaci e i vaccini, sono state compiute indagini di
tipo psicologico, psicosociale e psichiatrico sugli effetti della pandemia sulle
persone e sulle comunità, nonché valutazioni delle conseguenze psicologiche
delle stesse azioni pubbliche di contrasto come il confinamento e il
distanziamento fisico e sociale.
La parola d’ordine di quest’emergenza è stata, infatti, isolamento: le
conseguenze di un prolungato distanziamento sono state significativamente forti
e devastanti.
Il virus ci ha insegnato a guardare ogni persona con diffidenza, come possibile
portatore d’infezione e malattia e ha insidiato in tutti noi l’inganno, il
sospetto, il timore in modo subdolo e profondo. Ha introdotto nella nostra
società l'idea che l'altro possa portare qualcosa di cattivo e dannoso, anche se
involontariamente.
Guardiamo sempre più spesso le possibilità di contatto con gli altri con maggior
timore e questo lascerà inevitabilmente un segno indelebile sull’intera
comunità, e più nel dettaglio, sui rapporti sociali.
In questi mesi abbiamo imparato in modo disfunzionale a isolarci, a stare in
casa, in uno spazio che erroneamente abbiamo creduto l’unico sicuro e protetto.
L’effetto collaterale più evidente conseguente al lockdown per molti, anche tra
coloro che non avevano mai sofferto prima di disturbi psicologici particolari, è
stata la cosiddetta sindrome della capanna o del prigioniero, ossia la paura di
uscire e lasciare la propria casa. Sul versante opposto si ha la sindrome da
sequestro, che implica il sentirsi privati ingiustamente delle proprie libertà e
quindi induce a uscire in continuazione senza seguire le regole di sicurezza e
senza rispettare i divieti cautelativi, a cominciare dal rifiuto della
mascherina in pubblico
Alla solitudine, alla paura che nulla torni più come prima, all’angoscia di
perdere una sicurezza economica, al timore di perdere i nostri cari per un
possibile rischio di contagio, si affianca un fattore pericoloso che accomuna
tutti noi in questo periodo di post pandemia e che può impattare negativamente
sulla nostra salute mentale: è il cosiddetto pensiero catastrofico.
Si tratta della tendenza ad anticipare sempre il peggio: un vissuto di continua
instabilità, di crollo delle certezze. Ovviamente, anziché aiutare, questi
pensieri complicano ulteriormente la realtà che stiamo vivendo.
Un’ulteriore suggestione. Tra le conseguenze psicologiche altrettanto importanti
durante questo periodo, emerge anche la perdita di fiducia nei confronti delle
fonti ufficiali d’informazione. Stampa, social e media sono strumenti essenziali
per il veicolarsi delle informazioni ma anche elementi potenzialmente dannosi,
perché talvolta confondenti e orientati ad amplificare la risonanza delle
notizie negative.
Da alcuni studi effettuati in questo periodo, è emerso che chi sviluppa sintomi
da stress per sovraesposizione mediatica, cerca di alleviare lo stress seguendo
attentamente tutte le notizie che riguardano l’evento traumatico stesso.
S’innesca così un circolo vizioso che porta ad un peggioramento del disturbo.
L’informazione H24 si fa bombardamento, diffonde allarme, ciba le paure. le
persone ne parlano, contribuendo ad alimentare il circolo vizioso di cui sopra.
È infodemia: si deforma la realtà, si manipolano verità scientifiche, si
elaborano teorie senza fondamenti logici.
Per molte persone, nel momento massimo di crisi, la mente si è disconnessa anche
aiutata dal motivo che, essendo il COVID-19 un virus del tutto sconosciuto, come
lo era la SARS ai suoi tempi, le Autorità hanno risposto sulla base dei
progressi e degli eventi registrati giorno per giorno.
La pandemia non ci ha dato il tempo di adeguarci all’ignoto, non assomiglia a
nulla che abbiamo sperimentato in passato.
Da qui sgomento, paura, ansia. Queste ultime sono emozioni primarie, indotte da
una minaccia attuale o potenziale che possa affliggere il nostro benessere o la
nostra sopravvivenza. Le emozioni sono processi multicomponenziali fondamentali.
Ciò che bisogna gestire non sono le emozioni in sé ma la disregolazione delle
emozioni, ossia la perdita di controllo, l’interruzione della “stabilità
interna” e la capacità di contemperare la reazione automatica addomesticandola
con la mente.
La paura produce un’attivazione fisiologica immediata dell’organismo per far
fronte alla minaccia incombente (risposta di attacco-o-fuga) e focalizza
l’attenzione su di essa, rendendoci cauti, portandoci ad analizzare costi,
rischi e conseguenze prima di prendere una decisione.
L’ansia è un’emozione che si esprime tramite tutto il sistema psicologico e
fisiologico dell’individuo alterandone l’equilibrio naturale. Ci rende nota
l’esistenza di uno stimolo saliente, concentra tutte le energie nel momento
dato, a beneficio della nostra riuscita e delle prestazioni.
Un eccesso di ansia può determinare un effetto “tunnel”: ci rende irrazionali,
impulsivi, diminuendo la capacità di concentrarci e riducendo le nostre chance
di compiere decisioni appropriate.
E’ il dramma che ognuno di noi ha vissuto e continua a vivere a causa della
pandemia e che ha creato una condizione di fatica, sviluppato la presenza
sintomi dello spettro ansioso-depressivo e post-traumatico da stress. Il
disturbo da stress post-traumatico è un disturbo psichiatrico che può
svilupparsi in seguito all’esposizione ad eventi traumatici così eccessivi da
determinare uno sconvolgimento psichico. Se nella prima fase della pandemia
abbiamo osservato un preoccupante aumento dei livelli di ansia, depressione e
insonnia, lo stress persistente di una situazione di emergenza che dura da un
anno, senza alcuna certezza di uscirne a breve, rappresenta un evento traumatico
cronico che è ancora in divenire ma di cui vediamo già gli effetti nel tempo,
allargati alla popolazione generale. Un autentico trauma da pandemia che potrà
lasciare segni fino a trenta mesi, quindi a lungo nei prossimi due o tre anni, e
mette a rischio un italiano su tre. Con le donne a essere più esposte. Nella
popolazione generale sono le donne la categoria più a rischio, perché il
lockdown e anche il sistema a semaforo ha pesato più che mai su di loro, sia
come madri sia come lavoratrici, moltiplicando pesi, aumentando i rischi e
l’isolamento, incidendo con la disoccupazione.
Naturalmente non tutte le persone riportano le stesse conseguenze in forza delle
diverse personalità. Ogni individuo reagirà in base alla propria storia di vita
e al proprio “modello operativo interno”, ovvero l'insieme schemi di
rappresentazione interna che costituiscono immagini, emozioni, comportamenti
connessi all'interazione tra il bambino e gli adulti significativi , che
diventano ben presto inconsapevoli e tendenzialmente stabili nel tempo.
Chi presenta tratti narcisistici è più probabile che si senta superiore al virus
e che prenda le necessarie precauzioni ostentando noncuranza; chi presenta
tratti ossessivi seguirà con precisione le regole su detersione delle mani,
distanza di sicurezza e mascherina; chi presenta tratti paranoidi tenderà a
pensare che sia tutta un’invenzione per controllarci; per chi presenta tratti
evitanti l’impossibilità del contatto potrebbe essere quasi un sollievo; chi
presenta tratti borderline da una parte soffrirà le restrizioni ma dall’altra ne
comprenderà la necessità.
Nei casi più gravi, si manifesta un’alterazione tale della percezione della
realtà da provocare allucinazioni, proiezione nel mondo esterno di sentimenti e
pensieri, paranoia.
In era Covid il più grande fattore protettivo sembra essere una condizione di
benessere spirituale.
Il legame e le emozioni tra lo psicoterapeuta e il paziente: il lavoro
psicologico ai tempi del Covid-19
In presenza di una pandemia, con l’emergente bisogno psicologico da un lato e le
limitazioni nel poter esercitare la professione con le modalità tradizionali
dall’altro, diversi sono gli aspetti che hanno contraddistinto l’intervento
psicologico e la dimensione relazionale.
Lo psicoterapeuta, in quanto operatore del benessere dell’individuo, ha avuto un
ruolo importante nel decorso pandemico, trovandosi a dover spesso stravolgere
alcuni capisaldi della sua professione (la regolarità degli incontri, il setting,
i colloqui in presenza) per adattarli velocemente alla realtà in mutamento e per
gestire forme di disagio e di vera e propria psicopatologia a tratti nuove:
l’isolamento sociale, il ritiro scolastico, la dipendenza crescente dalle
tecnologie, il trauma, il lutto, la paura dell’ignoto, il bombardamento
mediatico, la perdita dei riferimenti spazio temporali propri della
quotidianità.
Spesso la responsabilità della cura è stata faticosa e lasciata al singolo, con
minori possibilità di confronto allargato e, al tempo stesso, con un carico
emotivo anche personale aumentato.
In primo luogo, la pandemia ha posto, forse per la prima volta nella storia
della psicoterapia, paziente e terapeuta nella medesima situazione
peritraumatica, condizione questa che genera un senso di impotenza e
vulnerabilità condivise e favorisce allo stesso tempo empatia e compassione.
D’altronde anche noi come psicoterapeuti siamo pervasi da paure.
Sicuramente il momento che noi tutti stiamo vivendo ci permetterà in un futuro,
dopo la sofferenza, anche di essere maggiormente resilienti. In questo caso è
importante sollecitare e analizzare la nostra capacità riflessiva e quella del
paziente, cioè la capacità introspettiva di guardare sé e l’altro, oltre ad
analizzare quali strategie il paziente è in grado di mettere in campo per far
fronte all’attuale disagio.